NextGenIT, è discontinuità vera?

26 maggio 2021

Antonio Santangelo

Il 30 aprile il governo ha presentato alla Commissione Europea il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, abituiamoci a chiamarlo NextGenIT, come ha fatto l’Europa per rimarcare la discontinuità rispetto al passato, e la scommessa sulle generazioni future. Il sostantivo che caratterizza il PNRR presentato è, appunto, discontinuità; per la prima volta, dopo anni di insistenze, il Paese si impegna a soddisfare i richiami della Commissione, fare le riforme: giustizia, mercato del lavoro, Pubblica Amministrazione, cui ne vengono associate molte altre, qualcuno le ha contate, 48.



Nei sei anni che finanzia NextGenEU dobbiamo colmare il fossato che ci separa dai partner europei, e che è enumerato nella premessa di NextGenIT: scontiamo un ritardo accumulato negli scorsi 20 anni, almeno. In questo lasso di tempo ci siamo staccati dal gruppo dei primi per ritmo di crescita. La Francia è cresciuta 4 volte di più, la Spagna 5, e il risultato è l’aumento della povertà, triplicata dal 3% sino al 9,4 in 10 anni.


Le principali vittime sono i giovani e le donne, tagliati fuori dal mercato del lavoro; solo il 53,1% delle donne lavora, contro il 62,4% europeo, ma nel Sud si precipita al 32,2 e nelle isole al 33,2. I giovani, ambosessi, che non studiano e non lavorano (NEET, Not in Education, Employment or Training) sono il 22,2% tra 15 e 29 anni, due milioni di ragazzi, il 10% in più della media europea (12,5%) Nel passo più lento dell’industria nazionale c’è la lentezza della produttività, il PIL per ora lavorata è cresciuto del 4,2% in vent’anni, mentre in Germania e Francia è cresciuto 5 volte tanto; la produttività totale è diminuita del 5,8%, mentre è aumentata ovunque in Europa. I ritardi su digitalizzazione, lavoro agile, investimenti sono il segnale di un Paese invecchiato e del fallimento di una classe dirigente incapace di rinnovarsi. C’è da farsi tremare i polsi.

Nei prossimi 5 anni e mezzo il Paese deve fare le cose che per più di venti anni si è trascinato dietro: sviluppare azioni che contribuiscano alle 6 missioni che l’Europa si è assegnata. Cambiare il modo di pensare e vivere l’ambiente (il 40% degli investimenti va destinato a questo), in modo da lasciare a figli e nipoti qualcosa di più di una discarica che scalda come una sauna; cavalcare, invece che subire, la rivoluzione digitale, sviluppando il più ampio programma di educazione attiva che sia mai stato attivato (destinato il 20% a questo obiettivo). E poi cambiare la pubblica amministrazione in modo che funzioni da facilitatore e non da freno per l’economia. Dobbiamo fare questo e molte altre cose, e dobbiamo farlo in tempi stretti, rendendo conto alla Commissione ogni 6 mesi dei passi avanti compiuti, cioè del rispetto del cronoprogramma che ci siamo dati.


Dobbiamo dimostrare ai nostri partner, con cui ci siamo impegnati e assieme stiamo chiedendo i fondi per il Recovery Plan sui mercati finanziari internazionali, che siamo un partner affidabile, che porta a conclusione gli impegni che prende. Il passato non ci fa onore e non ci aiuta. Sviluppare i progetti raccolti nelle 500 schede che accompagnano il PRRT richiede uno sforzo immane, se lo guardiamo con gli occhi del passato.


Serve discontinuità. Il governo ha allestito una unità di missione presso il MEF, che svilupperà una gestione fortemente centralizzata e interloquirà direttamente con la Commissione; Palazzo Chigi attiverà un cabina di Regia che ha nei ministeri per la transizione (ecologica, digitale) interlocutori fissi e attiverà via via gli altri alla bisogna. A supporto 300 tecnici, per rafforzare e integrare competenze presenti nei ministeri (e magari intervenire per rimuovere remore e resistenze). La partita più dura si sta svolgendo ora, è quella delle semplificazioni necessarie a superare il bizantinismo delle nostre procedure, o delle contraddizioni insite nell’accumulo di leggi e regolamenti. Il tempo non è più una variabile indipendente, l’esecuzione dei progetti è correlata al rispetto delle scadenze. La parte esecutiva scende al livello dei territori, e qui la consapevolezza della sfida può essere messa in discussione dall’estraneità allo sforzo di concepimento e selezione relativo al piano. Vi sono passaggi connessi allo sviluppo dei progetti in cui l’intervento degli enti territoriali coinvolti, Regioni, Comuni e Provincie, non è bypassabile. Il governo pensa a una task force di mille tecnici pronti a fornire competenze indispensabili. Si apre anche uno spazio per le imprese che hanno consuetudine con gli enti, fornendo assistenza tecnica nel rispetto delle procedure.


La capacità dei territori di metabolizzare la nuova realtà, quindi di cogliere e giocare in proprio la discontinuità, deciderà del buon fine di NextGenIT, sapendo che in caso di ritardi o inadeguatezza, il governo centrale sarà costretto a commissariare le realtà inadempienti. La sfida che ci pone NextGenIT è di superare un limite che questo Paese ha sempre avuto, e che è divenuto una litania, e un alibi, nella sua eterna riproposizione: fare sistema. Riuscire a muoversi in maniera ordinata, rispettando scadenze e impegni è un’occasione che non possiamo mancare.

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