Parità, obiettivo complesso

Antonio Santangelo • 19 luglio 2024

Antonio Santangelo

Il tetto di cristallo è appena scalfito e la strada è ancora lunga.

L’agenda ONU sullo sviluppo sostenibile ha fissato un appuntamento al 2030 per il raggiungimento di traguardi importanti in tema di parità di genere, e l’obiettivo 5 stabilisce come questa rappresenti “non solo un diritto umano fondamentale, ma la condizione necessaria per un mondo prospero, sostenibile e in pace”. 

La parità di genere è considerata dunque condizione essenziale per ottenere livelli di benessere per i popoli del pianeta oltre che per aumentare il PIL e migliorare i parametri economici. Aspirazioni di giustizia sociale si intrecciano con la concretezza delle condizioni materiali. L’Europa ha varato nel 2020 la sua Strategia per la parità di genere, che si concentra su violenza di genere, stereotipi, mercato del lavoro - partecipazione ai diversi settori economici, divario retributivo e pensionistico - equilibrio di genere nel processo decisionale e nella politica. In Italia è la Costituzione a fissare l’uguaglianza tra donne e uomini, ma la nostra realtà è fatta di aspetti molto contraddittori, ultimamente persino in peggioramento


Oggi a sancire le distanze tra i generi è l’osservatorio del World Economic Forum con il suo Global Gender Gap Index (2023), che constata che nessun Paese al mondo ha raggiunto la parità; i più virtuosi - Norvegia, Svezia, Finlandia, Islanda - sono vicini all’80%, gli altri molto più indietro. L’indice misura quattro parametri a livello globale: istruzione, salute e sopravvivenza, opportunità economiche ed empowerment politico. La posizione dell’Italia è peggiorata nell’ultimo anno, passando dal 63° al 79° posto su 140, con dei risultati buoni per salute e istruzione (96 e 95,2%), che scendono in relazione alla partecipazione economica al 60,1%, per arrivare al 22,1% in tema di empowerment politico. Per raggiungere la parità servono ancora 131 anni al ritmo attuale.


I punti chiave per le valutazioni sono istruzione, occupazione, natalità, emigrazione, che delineano un quadro complesso; vediamo la realtà italiana.

Un dato generale riconfermato da quello europeo riguarda la maggior partecipazione delle donne alla formazione superiore, in area Ocse il 54% delle donne tra i 25 e i 34 anni ha completato l’istruzione terziaria, a fronte del 41% degli uomini. Qui da noi nel 2022/23 le iscritte sono state il 56,4% del totale e, come in Europa, la percentuale di donne laureate è superiore a quella degli uomini. Le donne sono però meno presenti nelle discipline Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), quelle più richieste e valutate in prospettiva. Le immatricolazioni in questo ambito nel 2022/23 sono state 94.305, di cui solo 37.456 ragazze. 

La scelta dell’ambito di studio è frutto di una cultura diffusa che spinge le studentesse a preferire gli studi umanistici: condizionamento della famiglia, orientamento degli insegnanti, tipologia dei test utilizzati, ruoli prevalenti nella società. La ricaduta di tali scelte in ambito lavorativo non è quindi confortante, se si considera che l’osservatorio Unioncamere-Anpal prevede che entro il 2027, a seguito della transizione digitale serviranno almeno due milioni di persone con competenze digitali, progettisti e programmatori software, ingegneri, analisti, tecnici web. 


La maggioranza femminile si ribalta inoltre nella prosecuzione degli studi e nella carriera accademica, le percentuali maschi/femmine si invertono, le donne sono in maggioranza sino al dottorato di ricerca, poi nella ricerca e docenza la maggioranza è maschile, le professoresse associate sono il 42,3% del totale, le ordinarie il 27%, le rettrici il 12,1% (2022). In Europa va solo un po’ meglio, le rettrici sono il 38,3% (2021).

Se poi guardiamo all’altro estremo del problema, quello del disagio e dello spaesamento, le statistiche di Eurostat riferite al 2022 indicano che tra le giovani donne (15-29 anni), le NEET (Not in Education, Employment or Training) rappresentano il 36%, mentre in Europa il 21,3%, dato superiore rispetto alla controparte maschile con il 15,5% contro il 10,2% europeo.


La partecipazione alle attività economiche da parte delle donne, in Italia raggiunge tassi tra i più bassi in Europa, il 52% contro una media del 69%, e di 18 punti più basso rispetto a quello maschile. Il tasso di inattività è un record, il 43,6% contro il 30% europeo, sono 900 mila le disoccupate, che portano le inattive a 8 milioni circa. Le donne lavoratrici sono circa 9,5 milioni, gli uomini 13, e la collocazione di queste è più precaria rispetto a quella degli uomini, il 20% infatti rinuncia al lavoro dopo la maternità; altro segnale di fragilità è il fatto che più del 50% delle donne che lavora part-time non lo fa per scelta.

Gli squilibri territoriali riflettono i dati economici generali, le donne (età 15-64) che lavorano al Nord sono il 62,9%, al Centro 59,4%, entrambi al di sopra della media nazionale (53%), mentre al Sud sono il 37,2%.

Il potere contrattuale è anch’esso sbilanciato, la differenza tra il salario annuale tra uomini e donne è in media il 43%, la retribuzione media dei primi è infatti di 26.200 € circa, contro 18.305 € delle donne.


La carenza di servizi per la cura di bambini e anziani impatta sui carichi di lavoro familiari, e quindi sulla componente femminile che si assume i carichi di lavoro informale. Gli asili nido esistenti permettono a meno del 30% dei bimbi 0-2 anni di fruirne e ciò è largamente al di sotto dei target della Ue (45% al 2030), che il Pnrr dovrebbe migliorare. Un maggiore supporto nella cura dei figli consentirebbe alle donne di lavorare e, dove gli indici di occupazione femminile sono più alti nascono più figli. Iniziative orientate al welfare familiare e politiche di condivisione della cura dei figli incidono positivamente: congedi di paternità e politiche di conciliazione vanno in questo senso.

Il demografo Alessandro Rosina individua tre punti chiave per migliorare: nelle società avanzate la natalità precipita in assenza di politiche mirate, non esistono singole misure a supporto ma serve un insieme di strumenti dedicati, la qualità della vita è correlata alla possibilità di integrare positivamente il ruolo di genitore con quello di lavoratore.

Gli economisti sostengono che dove c’è parità di genere nei diritti e nelle opportunità si ha un maggior sviluppo economico e il reddito pro capite è più elevato. L’Istituto Europeo per la Parità di Genere calcola che la parità farebbe aumentare il Pil europeo dal 6% al 9,5% entro il 2050, per l’Italia sarebbe il 12%. Se queste sono previsioni che si debbono verificare, i dati Ocse dicono invece che i divari tra i sessi generano una perdita media di reddito del 15%.

La diseguaglianza moltiplica gli effetti negativi, fa perdere invece di attrarre. Dal 2006 il numero di italiane emigrate è raddoppiato, attratte da migliori livelli di reddito e di carriera; il 5% delle laureate del 2022 lavora all’estero (dati AlmaLaurea). Dei 6 milioni di italiani residenti all’estero (dati Aire) 2,8 milioni sono donne, il 30% circa con titolo universitario, prevalentemente di età dai 30 ai 40, anni in cui si concentrano scelte cruciali, carriera, matrimonio, figli.


Il Pnrr, si è accennato sopra, dovrebbe migliorare le cose. La «Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026», focalizzata su cinque ambiti (lavoro, reddito, competenze, tempo, potere) ne è una priorità trasversale. I progetti finanziati dal PNRR, prevedono infatti una quota del 30% di assunzioni femminili e di giovani al di sotto dei 36 anni, condizione però, spesso disattesa. Si aggiunge la Legge 5.11.21/162, che ha l’obiettivo di rafforzare la tutela delle pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo e introduce dal gennaio 2022 la Certificazione della Parità di Genere, che attesta misure e politiche aziendali per la gestione delle differenze di genere, la tutela della maternità, l’allineamento salariale a parità di mansioni, la garanzia di medesime opportunità di crescita in azienda. Ad oggi il 26% delle imprese ha ottenuto la certificazione (e tra queste c’è anche, orgogliosamente, Archidata). Le motivazioni sono diverse, vanno dalla brand reputation a una strategia integrata orientata a creare una cultura aziendale rispettosa dei principi di uguaglianza, diversità e inclusione. 

Ma il tetto è ancora lì, resta molto da fare per infrangerlo.



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